Sum, ergo communico

Pubblicato da Maurizio il 02/04/2022
Aggiornato il 28/10/2024
Tempo di lettura, circa 5 minuti

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Non so se la locuzione latina sia corretta o meno… mi sono voluto ispirare alla ben più famosa cogito, ergo sum penso, quindi sono.

Ho voluto ribaltare il punto di vista e ne è uscito un sono, quindi comunico.

Perché la fotografia è comunicazione.

Che ti piaccia o no, che tu ne sia consapevole o meno, quando fai una fotografia comunichi qualcosa.

Sebbene guardando il rete sembra di vedere fotografie tutte uguali anche queste comunicano.

Comunicano, ad esempio, il bisogno di appartenere ad un gruppo (io sono un fotografo paesaggista, io invece uno street photographer, ecc.). Comunicano il desiderio di uniformarsi (la stessa identica fotografia fatta dallo stesso identico punto di ripresa alla stessa identica ora del giorno). Comunicano il desiderio di emergere (le foto dei nostri viaggi in luoghi speciali, la macchina nuova, un vestito particolare, una pietanza gourmet). Comunicano un crescente e problematico culto della propria persona (selfie, selfie, selfie, selfie…).

Il risultato di tutto ciò è una comunicazione piuttosto semplice e vuota ma identifica questo momento storico di incertezza, di voglia di riscatto ma neppure tanta (non importa se faccio una vita di merda: mi importa di avere il mio riscatto il fine settimana oppure durante una sempre più breve vacanza).

La tipica foto delle vacanze: cielo e mare azzurrissimi, con i colori pompati al massimo per nascondere il carattere totalmente ordinario della scena reale.

Io non sono assolutamente contrario alle foto delle vacanze ma che cosa succederebbe se ti sforzassi un po’ di più? Andando ad osservare con meno superficialità la scena? Cercando di comunicare qualcosa di leggermente diverso dal solito?

La tipica foto delle vacanze non è più così tipica...

Basta poco per cambiare completamente le carte in tavola (e per cambiare completamente il messaggio!).

Posso dire che la seconda immagine comunica non solo qualcosa di diverso ma qualcosa IN PIU’ della prima?

Ovviamente sì, perché non si limita a registrare ciò che ho davanti agli occhi ma inizia ad interpretarlo.

Il colore azzurro del cielo e del mare, la superficie increspata dell’acqua, le nuvole estive e il molo decentrato della prima fotografia sono tutti elementi riconoscibili e facilmente interpretabili: si tratta di una fotografia ripresa da una spiaggia o da un piccolo porto. Tutto qui. L’unico dubbio che potrebbe venire al nostro osservatore è, appunto, il luogo dello scatto ma nient’altro.

La seconda immagine è totalmente diversa. Il colore sparisce (mattino? sera? estate? inverno?). Il lungo tempo di scatto trasfigura le nuvole (estive o temporalesche?) e la superficie dell’acqua (mare o lago?). Se tutta la scena si muove, grazie all’esposizione prolungata, il molo posizionato al centro dell’inquadratura la rende invece assolutamente statica, quasi ipnotica.

Non potrebbe essere una fotografia scattata su di un pianeta alieno?

Il vero passaggio comunicativo lo si raggiunge nel momento in cui si abbandona il modus comune (non me ne frega più niente di fare le foto che fanno gli altri). Per forza di cose - in questo momento - inizieranno a scarseggiare i pollici alzati e gli WOW ma accadrà un mezzo miracolo perché libero dalle costrizioni di compiacere gli altri alla ricerca di piccole soddisfazioni, potrai iniziare a parlare la tua lingua.

Questa non può assolutamente essere la foto delle vacanze. Nessun *mi piace* sui social!

Quando sono uscito per fare questa fotografia non avevo in mente un progetto preciso. Volevo andare in quel posto in un periodo preciso e particolare (la vigilia di Natale).

Di questa passeggiata ho già raccontato QUI ma ora voglio concentrarmi su questa singola immagine.

Durante questa passeggiata del tutto particolare ho voluto ritrarre il luogo di un assassinio perpetrato dai nazi-fascisti nel paese in cui vivo.

Il cippo di marmo posato alla memoria si vede a malapena, sulla destra, sopra l’argine del torrente. La nebbia, l’erba secca, gli alberi spogli sono tutti elementi che caratterizzano la scena che i ragazzi fucilati in quel luogo avranno, molto probabilmente, visto prima di chiudere per sempre gli occhi. Il freddo pungente e umido è percepibile. Il palo in primo piano richiama il palo a cui, nella memoria comune, veniva legato il condannato alla fucilazione ma anche un muto testimone che osserva la scena.

La fotografia è leggermente sfocata (giusto per rimarcare la differenza, in rete non troverai MAI foto tecnicamente imperfette!) per simulare la vista attraverso gli occhi gonfi di lacrime dell’osservatore (la madre di uno dei ragazzi?).

I fili dell’alta tensione sono stati lasciati lì dove sono. Avrei potuto toglierli con poca fatica e qualche minuto di post-produzione ma è ormai da tempo che lascio nelle mie fotografie anche questi elementi di disturbo proprio per caratterizzarle. Non volevo scattare un’immagine che sembrasse ripresa quel giorno ma riprendere la scena in questo preciso istante perché, oltre 70 anni dopo, ci sia ancora memoria di questi luoghi e ci siano ancora lacrime da piangere.

Solamente guardandosi un po’ di più dentro è possibile iniziare a comunicare qualcosa di personale e non di standardizzato e di approvato dalla comunità.

Inizierai a fare qualche foto strana? Sì, certamente.

Ci saranno diverse foto da buttare? Anche…

Ma, non scoraggiarti.

Pensando di comunicare qualcosa di personale e di unico, qualcosa che scaturisce dal mio cervello, dal mio vissuto quindi totalmente intimo sono arrivato a fare questa fotografia.

Questo non è un rettangolo nero ma una fotografia!

Questo non è un rettangolo nero ma una fotografia sottoposta ad una post-produzione con l’obiettivo di renderla così.

Ma che razza di foto è?! Che cosa comunica?

Potrebbe essere il modo di interpretare un momento degno di essere ricordato di un ipovedente?

La scena è praticamente nera ma le luci di un lampadario (forse) vengono registrate.

Oppure il fotografo si è divertito a scambiare i ruoli e ha reso ipovedenti tutti gli osservatori!

Se tu non potessi vedere e andassi a visitare una mostra fotografica vedresti foto come questa, non trovi?

Forse, invece, il fotografo vorrebbe condividere con te un momento bellissimo della propria vita che è riuscito ad immortalare ma si tratta di una cosa talmente intima e personale che non vuole sbandierarla ai quattro venti e la tiene per sè. Un piccolo segreto felice.

Lui sa perfettamente che cosa è stato registrato sul negativo digitale e vede benissimo attraverso i pixel neri. Addirittura si commuove!

Anche questo, in fondo, è un modo di comunicare.


etichette: filosofia



Anonimo

21/03/2023 alle 10:21

Articolo interessante... non tanto per gli esempi con le immagini (quelle le hanno tutti e tutti possono fare degli esempi del genere, più o meno "calzanti"), quanto per il concetto che l'articolo prova a sviluppare all'inizio.

Quando si parte con queste affermazioni (cito testualmente):

"Ho voluto ribaltare il punto di vista e ne è uscito un sono, quindi comunico.

Perchè la fotografia è comunicazione.

Che ti piaccia o no, che tu ne sia consapevole o meno, quando fai una fotografia comunichi qualcosa."

Intanto c'è una partenza troppo imperativa: "Perché la fotografia è comunicazione"...

La frase corretta dovrebbe essere: perché la fotografia è "anche" comunicazione... messa come prima (tono imperativo) arriva come: perché la fotografia è "solo" comunicazione. E questo non è corretto. La Fotografia è sicuramente "anche" comunicazione, ma non è "solo" comunicazione, è anche tante tante altre cose.

Partendo da questa precisazione, è necessario innestare nel discorso il concetto di "volontarietà"...

Per spiegarmi meglio, dettaglio subito che una fotografia comunica comunque, anche senza la volontarietà dell'autore, ma non necessariamente diventa comunicazione.

Se l'autore non fotografia per gli altri, per esempio, ma fotografa solo per se stesso, le fotografie che vede solo lui e che mai vengono a contatto con il mondo, e che nessuno vedrà mai... difficilmente racconteranno qualcosa ad altri. Quindi, quando faccio una fotografia NON è vero che comunico qualcosa...NON necessariamente...se la tengo per me, se non la vedrà mai nessuno NON comunico proprio niente.

Tutto parte dal perché ognuno fotografa, da quali sono le motivazioni di chi decide di usare il mezzo fotografico.

Inoltre, anche se per combinazione, per sbaglio, o perché glielo chiedono e lui acconsente all'uso delle sue fotografie, anche se non le ha realizzate con quello scopo, anche se a quel punto la sua fotografia diventa comunicazione... rimane il fatto che lui non le ha realizzate con quello scopo...

Per concludere, infatti:

Si può benissimo fare Fotografia senza per forza voler dire o comunicare alcunché.

Maurizio

21/03/2023 alle 11:12

Cosa dire... MAGARI ci fossero più commenti come questo!

Possiamo condividere o meno ma sicuramente il nostro amico ci invita ad una riflessione che è molto distante da quello che io ho espresso nell'articolo. Questo è il bello della discussione. Questo è "anche" il bello della fotografia: fa discutere.

Proprio per questo rimango convinto che la fotografia è comunicazione. La discussione è comunicazione. E chi fotografa per se stesso comunica ugualmente perché prima dello scatto la sua mente ha fatto un ragionamento e quindi ha comunicato (anche se solo con se stesso).

E quando il fotografo rivedrà la sua foto emergere da un cassetto, da un quaderno o da un hard-disk proverà sicuramente qualche emozione, qualche ricordo e, quindi, entrerà di nuovo in contatto con una sua intima parte: di fatto COMUNICANDO.

E, per concludere, se a uno sconosciuto spettatore sarà concesso di vedere - accidentalmente o no - la foto tenuta gelosamente nascosta in un cassetto (mi viene subito in mente Vivian Maier) non potrà restarne completamente indifferente e, quindi, anche in questo caso il fotografo avrà comunicato qualcosa che a lui piaccia o no.

Anonimo

24/03/2023 alle 8:37

Certo che la fotografia è comunicazione, l'ho scritto a chiare lettere nel mio primo commento... e, da subito, ho anche scritto che anche se l'intenzione di chi ha realizzato le immagini non era quello di comunicare, nel momento in cui, per sua stessa concessione o per caso ecc. altre persone vedono quelle fotografie, la comunicazione avviene comunque.

Nel mio messaggio, tuttavia, ho specificato bene che la fotografia è "anche" comunicazione...non trovo corretto affermare che sia "solo" comunicazione. Tutto dipende, e anche questo è un concetto già dettagliato nel precedente commento, da quali sono le motivazioni per fare Fotografia.

Cos'è che spinge un dato individuo ad usare il mezzo fotografico? In pratica... perché si Fotografa?

Le risposte sono migliaia, e sono insite e nascoste in ognuno di noi...

...se è vero che nella stragrande maggioranza dei casi avviene per "esprimersi" o per "raccontare" o per "apparire" e, in una parola, per "comunicare"... ci sono moltissimi altri casi , per i quali la motivazione non ha niente a che fare con la VOLONTÀ di comunicare (poi che la fotografia che ne esce sia comunque comunicativa, è un dato di fatto, assolutamente scontato).

Citando il caso di Vivian Maier, si apre un esempio molto calzante e, nello stesso esempio, molto triste. Ho studiato molto il suo caso e ho fatto anche una serata in un centro culturale con la proiezione del docu-film a lei dedicato e con il conseguente dibattito... dove emergeva chiaro e limpido il grandissimo errore, l'enorme sbaglio che hanno fatto a usare le sue immagini, certamente realizzate da lei per se stessa e non per gli altri. Se vogliamo, possiamo parlarne più approfonditamente...

Per tornare quindi all'intenzionalità di chi fotografa, vorrei analizzare la teorica correlazione tra l'affermazione di partenza:

"Ho voluto ribaltare il punto di vista e ne è uscito un sono, quindi comunico.

Perchè la fotografia è comunicazione.

Che ti piaccia o no, che tu ne sia consapevole o meno, quando fai una fotografia comunichi qualcosa".

...e l'affermazione in risposta al mio commento:

"E chi fotografa per se stesso comunica ugualmente perché prima dello scatto la sua mente ha fatto un ragionamento e quindi ha comunicato (anche se solo con se stesso)".

Ecco questa la trovo un po' una forzatura... non perché non sia vero in assoluto (qualsiasi fotografia per sua natura... comunica), ma per due motivi specifici:

Intanto non era quello il messaggio dell'affermazione di partenza, che aveva certamente l'accezione (della parola "comunicare") diretta a "comunicare agli altri... al mondo".

Poi, nel caso in cui uno fotografa per se stesso... il ragionamento dentro se stesso, prima dello scatto, non va attribuito a una comunicazione (tra se e se) ma al momento stesso della "creatività", della formazione dell'immagine, del "taglio", della scelta stessa su cosa includere e/o escludere dall'inquadratura...

Infatti, prima si crea qualcosa (un libro, un pensiero, una musica, un dipinto, una fotografia ecc.) poi, se si vuole si può comunicare quel qualcosa, oppure si può decidere di tenerla per se, esattamente come le milioni di persone che, per esempio scrivono poesie che terranno sempre per se stessi e che non verranno mai lette da nessuno.

Torniamo quindi al concetto di "intenzionalità" e di "motivazioni" per le quali si fotografa.

Bisogna interrogarsi sul perché si fa Fotografia e, anche questo è un ottimo argomento di confronto.

Per concludere, vorrei riportare una frase di Denis Curti che ha espresso nel suo libro "Capire la Fotografia contemporanea, guida pratica all'arte del futuro" che ha ribadito anche nelle relative "pillole" video dedicate al libro... una frase che è un'affermazione, ancora una volta, di carattere "assoluto" e "imperativo":

"Per fare fotografia dobbiamo avere una storia da raccontare; se non abbiamo una storia, non andiamo da nessuna parte".

Ecco... NO!

Io questo lo contesterò sempre (e anche su questo ne ho parlato in incontri) perché non è così.

Intanto non è detto che uno voglia "andare da qualche parte"... moltissimi (me compreso) non vogliono andare da nessuna parte, fanno fotografia per altri motivi.

Poi, ed è bene ribadirlo, non è assolutamente vero che per fare Fotografia ci vuole per forza una "storia", soprattutto se uno non fa fotografia per comunicare (e qui, torniamo al punto)...

...come ho già scritto nel primo messaggio:

Si può benissimo fare Fotografia (anche Fotografia "grande", "importante", "profonda" ed "emozionante") senza per forza voler dire o comunicare alcunché.

Se qualcuno non è d'accordo su questa affermazione, sarebbe interessante leggere le sue osservazioni in proposito.

Maurizio

02/05/2022 alle 14.35

Caro lettore, rispondo a questo commento.

La fotografia non è solo comunicazione ma è ANCHE comunicazione. Verissimo! Non pensavo di essere stato così perentorio nel mio articolo ma concordo che la fotografia non è esclusivamente comunicazione ma è [può essere] mille altre cose. Ciò che io volevo affermare è che la fotografia non può non essere comunicazione ovvero, delle mille cose che può o non può contenere il lato comunicativo è imprescindibile.

Per quanto riguarda il suo lato narrativo (se non abbiamo una storia da raccontare non andiamo da nessuna parte) ritengo che esistano sicuramente delle ottime immagini che - prese singolarmente - dicono molto. Basta pensare ad alcune foto famosissime che sono - nell'immaginario collettivo - scatti singoli meravigliosi (Sharbat Gula , per dirne una tra centinaia) ma che fanno comunque parte di una serie molto più grande di scatti che raccontano storie, che costituiscono progetti. Anche nelle mostre fotografiche le immagini sono raggruppate ed esposte con un certo senso narrativo. Non ci sarebbe motivo di esporle appendendole a caso: lo spettatore ne rimarrebbe confuso e non apprezzerebbe il lavoro del fotografo che - ne sono certo - ci sta raccontando una storia. Vuole comunicarci qualcosa.

Che poi il racconto venga interpretato in modo personale, e quindi diverso, da ognuno di noi... questa è un'altra storia.

Un singolo scatto può essere grande, magnifico, importante, profondo, emozionante, ma il fotografo non l'ha fatto a caso: ci sta dicendo qualcosa.

Anonimo

06/05/2023 alle 10:50

Bene, mi fa piacere leggere che anche l'autore dell'articolo ha spostato il suo pensiero, scrivendo che la Fotografia è "anche" comunicazione e non è "solo" comunicazione, anche se nell'ultima parte di quel passaggio si legge:

"Ciò che io volevo affermare è che la fotografia non può non essere comunicazione ovvero, delle mille cose che può o non può contenere il lato comunicativo è imprescindibile."

...e questo rimescola un po' le cose... perché?

Perché avevamo già chiarito che ogni fotografia ha a prescindere, per sua stessa natura un potenziale comunicativo...ce l'ha sempre e comunque...

...ma non è affatto detto che questa potenzialità di comunicazione:

  1. Sia nelle intenzioni dell'autore...in molti casi, infatti l'autore fa Fotografia per altri scopi, altri motivi e non intende affatto comunicare.
  2. Si concluda effettivamente con la comunicazione...se l'autore fotografa con altri scopi, altre motivazioni, altri interessi, le immagini possono non essere mai viste da nessuno... mai! Possono essere viste solo dall'autore, possono rimanere allo stato di negativi non stampati, possono addirittura rimanere allo stato di immagini "latenti" ancora nei rullini mai sviluppati... o infine essere poi state distrutte per mille e mille cause, da quelle volontarie a quelle accidentali.

In conclusione:

Esiste chi fotografa per scopi e motivazioni diverse dal comunicare, a lui/lei quell'aspetto non interessa, e le immagini che derivano da quella Fotografia (pur possedendo la potenzialità di comunicazione) non comunicheranno mai nulla a nessuno.

Tutto questo era già stato chiarito, per questo non ho capito lo scopo di quell'ultimo passaggio sopra riportato.

La seconda parte della risposta, riguarda una precisazione necessaria, sull'interpretazione data alla frase di Denis Curti:

"Per fare fotografia dobbiamo avere una storia da raccontare; se non abbiamo una storia, non andiamo da nessuna parte".

...leggo nella risposta al mio commento passaggi come:

"...ritengo che esistano sicuramente delle ottime immagini che - prese singolarmente - dicono molto. Basta pensare ad alcune foto famosissime che sono - nell'immaginario collettivo - scatti singoli meravigliosi (Sharbat Gula , per dirne una tra centinaia) ma che fanno comunque parte di una serie molto più grande di scatti che raccontano storie, che costituiscono progetti."

...e altri passaggi come:

"Anche nelle mostre fotografiche le immagini sono raggruppate ed esposte con un certo senso narrativo. Non ci sarebbe motivo di esporle appendendole a caso: lo spettatore ne rimarrebbe confuso e non apprezzerebbe il lavoro del fotografo che - ne sono certo - ci sta raccontando una storia. Vuole comunicarci qualcosa."

Passaggi che denotano il fatto che non è stato focalizzato il punto dei commenti che ho scritto.

Qui non stiamo discutendo del valore della singola fotografia o dell'insieme delle fotografie che possono o non possono costituire una storia...

...qui stiamo parlando di altro...

...non del punto di "arrivo" ipotizzato da Maurizio Paglia (anche la singola immagine di valore fa poi parte di altre immagini di insieme) e/o (anche nelle mostre fotografiche le immagini sono raggruppate ed esposte con un certo senso narrativo).

...qui stiamo parlando del punto di partenza ipotizzato da Denis Curti ("Per fare fotografia dobbiamo avere una storia da raccontare; se non abbiamo una storia, non andiamo da nessuna parte").

Per fare Fotografia... quello che dice Curti è un suo limite impostato come punto di partenza...

Se non hai una "Storia da raccontare"... non puoi fare Fotografia (quella secondo lui "vera" o "interessante" o "importante"), e se comunque la fai (la Fotografia), ma non hai una storia da raccontare... non vai da nessuna parte.

Ora a parte che come ho già detto nel commento di prima, non è detto che uno "voglia per forza andare da qualche parte"... io, per esempio, non voglio andare proprio da nessuna parte...

Poi, come ho già scritto nei miei primi due commenti tutto dipende dal perché uno fa Fotografia.

È TUTTO LÌ

Ognuno ha le sue motivazioni e non è né matematico, né scontato che si scatti per raccontare qualcosa.

Dal momento che le motivazioni diventano la chiave per capire e spero per risolvere questa divergenza di opinioni, mi vedo costretto a dettagliare le mie.

Io, per esempio, faccio Fotografia da 46 anni (Febbraio 1977) e non ho mai fatto fotografia con lo scopo di raccontare o comunicare qualcosa, mai.

Anche se, logicamente capita di contemplare altri generi, in questi 46 anni la mia fotografia è stata dedicata soprattutto alla “Street Photography” ma non per comunicare o raccontare, la mia fotografia non parte infatti da una storia…parte dalla “vita”…

… è quello che mi interessa… vivere la vita con un’intensità diversa… vederla, sentirla, abbracciarla, fermarla… in una parola “viverla” appunto…

…fermare quell’attimo, dell’incredibile, insostituibile, incontestabile, indubitabile attimo in cui si condensa un autentico momento di vita… in cui si condensa il passare del tempo… o, filosoficamente parlando… il nostro passare attraverso il tempo.

Quello che avviene dopo lo scatto a me interessa poco e niente… guardo il rullino appena estratto dalla fotocamera (perché io scatto ancora tutto a pellicola in bianco e nero, e sviluppo e stampo ancora personalmente in camera oscura) come un qualcosa di finito, lo stimolo fotografico passa oltre e va al prossimo scatto.

Poi sviluppo i rullini, certo.

Poi stampo delle fotografie, sicuro.

Poi archivio tutto nel migliore dei modi, assolutamente.

Ma tutto questo è propedeutico per rivivere in futuro un piccolo surrogato delle emozioni provate al momento dello scatto… MAI per raccontare o comunicare ad altri.

Se succede (e quando succede) è perché me lo chiedono, MAI perché quello era lo scopo.

Infatti, non ho un sito, né un blog, ne pubblico immagini in internet… tutto questo, non mi interessa.

Quindi, se faccio fotografia per questi motivi, non ho alcun interesse a comunicare... e non ho alcun bisogno di dover per forza partire da "una storia da raccontare"... facendo "Street Photography", io parto parto dalla VITA, che per me è molto ma molto ma molto più importante dell'aver una storia da raccontare.

Poi certamente le immagini di vita si possono raccogliere in innumerevoli "storie" che potrebbero certamente anche essere raccontate, ma a me questo aspetto interessa poco e niente.

Pertanto, anche l'ultimo passaggio dell'ultima risposta:

" ....Non ci sarebbe motivo di esporle appendendole a caso: lo spettatore ne rimarrebbe confuso e non apprezzerebbe il lavoro del fotografo che - ne sono certo - ci sta raccontando una storia. Vuole comunicarci qualcosa."

È chiaro che se un autore espone le sue immagini non le appende a caso, ma le espone con una sequenza logica, che può anche raccontare una storia, ma questa come ho già scritto è una "visione di arrivo"... Curti parlava invece di una "visione di partenza"...

...e ancora:

e se l'autore non le espone?

Ci sta ancora raccontando una storia?

Vuole ancora comunicarci qualcosa?

Se non le espone...che cosa ci racconta? Che cosa ci comunica?

Come vedete bisogna leggere attentamente i commenti, altrimenti si rischia di scorrerli superficialmente, senza arrivare alla radice del pensiero e delle possibilità che lo straordinario mezzo fotografico ci offre:

  1. La Fotografia non è SOLO comunicazione, ma è anche tante altre cose (dipende sempre e comunque dal perché si fa Fotografia).
  2. Si può fare Fotografia (anche grande Fotografia) senza per forza voler dire o comunicare alcunché.
  3. La "potenzialità" che ha la Fotografia (come caratteristica intrinseca) di essere "comunicazione", può certamente in molti casi essere espressa e/o finalizzata come comunicazione, ma può in tanti altri casi non essere affatto espressa come comunicazione e può benissimo non diventare MAI comunicazione.

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