Alcune stazioni sono così belle che vi vengono organizzati appositi tour.
Si trovano fotografi ovunque (anche tanti con lo smartphone!). La ressa è infernale come in ogni metropolitana che si rispetti, eppure non è solo questo che colpisce entrando nelle viscere della città di Napoli.
Non ci si fa caso quando si sosta nelle basse gallerie o quando si avanza chiacchierando o ascoltando musica sulle scale mobili.
Migliaia di viaggiatori entrano di spontanea volontà in gallerie che si infilano in profondità sotto il suolo urbano. Sembra tutto normale fin quando non si ha l’occasione di arrivare in qualche stazione con l’ingresso aperto: diciamo a pozzo.
Una voragine, spazi enormi, vertiginosi. Un inghiottitoio di umanità frettolosa e assorta nei più vari pensieri.
É qui che capiamo che il treno (o l’aria aperta, a seconda del punto di vista) si trova distante decine di metri da noi eppure ci infiliamo, fiduciosi, come un’orda di ratti certi che la luce e l’aria fresca ci accoglierà di nuovo all’altra estremità.
Una svolta secca, come in un moderno labirinto, e si sprofonda sempre più in profondità.
La luce artificiale non ti fa pensare ai metri di terra sopra la tua testa, le case, il traffico delle auto.
I colori saturi e vivaci danno allegria. Richiamano la natura.
Gli specchi aumentano lo spazio (anche se è solamente una mera impressione).
Tutto fa dimenticare il fatto di essere in uno stretto passaggio dentro la terra fredda e umida.
I colori, le forme, i materiali sono lì ad abbellire quello che - di fatto - sarebbe simile alla galleria di una miniera.
Come la tomba decorata di un moderno faraone i locali si alternano ai corridoi, le porte chiuse ai lati nascondono vani segreti e inaccessibili.
Le scarpe affisse alle pareti richiamano i milioni di passi che, ogni giorno, risuonano nelle gallerie profonde.
Eppure queste sono immobili. Fissate alle pareti da sbarre di ferro. Deformate.
Più che una passeggiata od una corsa sembrano ricordare numerosi infortuni.
Le luci e i materiali utilizzati creano geometrie, superfici disomogenee, ombre e luci.
Questo affresco ha sostituito l’anonimo e standardizzato cartello uguale a quello di tutte le altre stazioni.
Anche nel sottosuolo, dove i punti di riferimento mancano totalmente, uno spazio aperto ci permette di valutare le dimensioni dell’ambiente che ci ospita.
Ci permette di trovarci in un luogo inaccessibile agli esseri umani.
Ci permette di respirare nonostante la terra e l’acqua tutto intorno a noi non ci permetterebbero di vivere che qualche secondo.
Una breccia nel muro (minuziosamente progettata e calcolata da uno sconosciuto ingegnere) ci svela che al di là della parete non ci sono terra e rocce ma un’altra scala che porta chissà dove…
O forse il foro serve solo a farsi beffa del viaggiatore che si trova a dover risalire la lunga scala mentre - al di là del vetro - una comoda scala mobile è inaccessibile.
Finalmente siamo arrivati a destinazione.
La stazione vera e propria. La banchina. I binari.
Chissà dove ci troviamo esattamente. Chissà che cosa succede sopra le nostre teste.
Il treno arriva dopo qualche istante, noi saliamo e ci lasciamo trasportare in una galleria ancora più stretta e buia fino alla stazione successiva.
Da lì potremo riprendere il nostro viaggio di ritorno verso la superficie.
Prospettive da centro commerciale nel ventre di Napoli.
Non ci sono negozi da dove arriviamo. Non ci sono negozi dove andiamo.
Un budello largo diversi metri sopra la nostra testa ci illumina.
Dall’altra parte non c’è nessuna lampadina ma la luce del sole.
Forse è questa la famosa visione della luce in fondo al tunnel?
Forse è, invece, la prima visione della nostra vita? Quella un attimo prima del parto?