Storia semitriste di un’importante trasferta che non avrei voluto fare.
Provate a cercare su Google ‘fotografia di viaggio‘ e troverete i 10 migliori consigli, i 10 errori da non commettere, i fotografi da seguire, i libri da acquistare, ecc. La fotografia di viaggio sembra sia diventata una branca ben definita della nostra sempre più catalogata passione.
A che ora muovervi, che itinerario seguire, che attrezzatura portare, e altri mille suggerimenti che, purtroppo, non servono a niente quando vi mettete in testa di fotografare durante una trasferta di lavoro.
L’occasione farebbe venire l’acquolina in bocca a tanti: una settimana negli Stati Uniti! Ben cinque stati da attraversare, oltre 1.300 miglia da percorrere in auto nell’America vera!
Ma… c’è un problema.
Il problema è che io, ahimè, non sono nato gabbiano ma orso perennemente in letargo e da buon plantigrado non vorrei mai spostarmi dalla mia adorata tana.
Mentre mi rodo dall’ansia per l’organizzazione del viaggio cerco di alleviarla pensando di sfruttare l’occasione per fare delle fotografie.
In barba al buon Google e a tutti i suoi saccenti consigli sarò in grado di portare a casa qualcosa di buono durante un viaggio con tempi serratissimi (che non dipendono da me) e nessuna occasione di poter restare da solo?
La risposta arriva non appena mi ritrovo in un’anonima camera d’albergo con il jet lag che mi tiene sveglio e quando sei sveglio… pensi!
La soluzione è proprio l’albergo!
Qui posso essere solo e organizzare un po’ di tempo come mi pare.
Quindi inizio gagliardamente con una fotografia fatta dal primo albergo in cui ho dormito, quello del jet lag e dei pensieri. É la prima mattina. Il viaggio deve iniziare e quindi una bella autostrada grigia ed anonima mi sembrava l’ideale.
In fondo - per i giorni a seguire - quello sarà il paesaggio che avremo davanti agli occhi.
Ho incluso nell’immagine l’insegna del prestigioso albergo. Non riuscivo a capire se fosse stata montata lì con scopi promozionali o per sottolineare il fatto che ai bordi di un’autostrada di prestigioso non c’è assolutamente niente.
Il viaggio continua con ritmi serratissimi. Riunione, auto, altra riunione, benzina, auto.
Avrei voglia di andare a passeggio con la macchina al collo ma tra mezz’ora c’è il ritrovo con tutta l’allegra brigata e prima sarebbe bene trovare anche qualche minuto per una doccia…
Le mie scarpe sono lì, dietro il vetro della finestra che osservano la strada deserta. Anche loro riescono a percepire il mio stato d’animo. Dove porterà questo percorso sconosciuto?
Altro albergo… altra storia.
Iniziavo ad essere stanco. Stare diverso tempo in un paese che non conosci interagendo in una lingua che non è la tua è stressante. E poi, si parla sempre e solo di lavoro…
Quella mattina c’era un tempo splendido ma io ero un po’ in crisi quindi ho deciso di farmi un autoritratto.
Le gambe sono ben visibili. I piedi sono nudi: un po’ per esprimere il desiderio di libertà che non potevo avere e un po’ per sottolineare l’essere indifeso, inadeguato, fuori posto.
Il busto (ovvero il cuore) e la testa (i pensieri) sono irriconoscibili, confusi, frastornati. Non ho volutamente ripulito l’inquadratura - lampada da tavolo, cestino, TV - per sottolineare ancora di più il caos che avevo dentro.
Passare da un fuso orario all’altro rende anche tutto più difficile!
A volte avevo sonno di giorno (forse complice anche la noia) a volte non riuscivo a prendere sonno la notte.
Nel buio della stanza guardavo le luci fuori ma non riconoscevo la finestra della mia camera da letto (ovvero quella di casa mia) e pensavo spesso a quanto fosse lontana la mia famiglia.
Il buio e lo sfocato confondono tutto rendendo impossibile capire in quale luogo ci si trova (Pessysburgh - Ohio)
Comunque alla fine è andato tutto bene. Ho fatto egregiamente il mio dovere, mi sono districato nel traffico americano, ho fronteggiato questa lingua che alcuni chiamano ancora coraggiosamente inglese e sono finalmente tornato nella mia adorata tana!